La seconda lettera ai Tessalonicesi dell’Apostolo Paolo contiene un passo enigmatico, nel quale si afferma che prima della parusia del Signore dovrà verificarsi la grande apostasia e manifestarsi l’Iniquo, cioè l’Anticristo; fino a quel momento, la manifestazione dell’iniquità verrà trattenuta da una forza che prima è definita come “ciò che trattiene” (tò katéchon), poi come “colui che trattiene” (ho katéchon)”. Il brano in cui compaiono questi termini è traducibile così: “E ora conoscete ciò che lo trattiene (tò katéchon), affinché si riveli a suo tempo. Infatti il mistero dell’iniquità (tò mystérion tês anomías) è già in atto; basta che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene (ho katéchon)” (2Tess, 2, 6-7). Secondo la versione latina di Girolamo: “Et nunc quid detineat scitis, ut reveletur in suo tempore. Nam mysterium iam operatur iniquitatis; tantum ut qui tenet nunc teneat, donec de medio fiat”.
Che cos’è, chi è questa realtà che in un suo libro recente (Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013) Massimo Cacciari designa come “il potere che frena”?
A tale interrogativo tentò di rispondere Agostino: “Non assurdamente si ritiene che il pensiero espresso dall’Apostolo con le parole: ‘Frattanto chi ora lo trattiene lo trattenga finché sia tolto di mezzo’, si riferisca all’Impero di Roma, come se fosse detto: ‘Frattanto chi ora comanda comandi finché esca di mezzo, cioè sia tolto di mezzo” (Agostino, Città di Dio, XX, 19, 3).
Lo stesso tema fu affrontato da Giovanni Crisostomo: “Che cosa è dunque ciò che lo trattiene dal manifestarsi, vale a dire gli impedisce di rivelarsi? Alcuni dicono che è la grazia dello Spirito, altri invece che è l’Impero romano: e io mi schiero nettamente con questi. Perché? Perché se [Paolo] avesse voluto intendere lo Spirito, non si sarebbe espresso in modo oscuro, ma apertamente, dal momento che anche adesso lo trattiene la grazia dello Spirito, cioè i suoi doni gratuiti. D’altronde, se fosse sul punto di venire, sarebbe già dovuto venire, poiché i carismi hanno perduto molto della loro forza: già da tempo infatti questi hanno perduto la loro forza. Siccome però dice questo in relazione all’Impero romano, giustamente si è servito di enigmi e parla in forma allusiva: infatti non voleva attirare su di sé inimicizie superflue e pericoli inutili (…) Basta che chi ora trattiene, trattenga finché non sia tolto di mezzo. Insomma, quando l’Impero romano sarà tolto di mezzo, allora quello [l'Anticristo] verrà. E giustamente. Infatti, finché vi sarà il timore di questo potere, nessuno si sottometterà facilmente; ma quando esso si dissolverà e si creerà il vuoto di potere, egli tenterà di impadronirsi del dominio di Dio e degli uomini” (Giovanni Crisostomo, Omelia su 2Tess. II, coll. 485-486).
Anche per Giovanni Damasceno tò katéchon “indica l’Impero romano” (Giovanni Damasceno, La seconda ai Tessalonicesi, col. 923), la cui scomparsa coinciderà con l’avvento dell’Anticristo.
Lo stesso scenario escatologico viene delineato da Lattanzio: “La città di Roma (…) è quella che finora tutto sorregge; bisogna pregare e adorare il Dio del cielo, ammesso che le sue deliberazioni e i suoi ordini possano essere differiti, affinché, prima di quanto pensiamo, non venga quel tiranno abominevole che ordisca un tale misfatto e cavi quell’occhio che con la sua caduta farà crollare il mondo stesso” (Lattanzio, Divinae institutiones, XXV, coll. 812-813).
Girolamo ribadisce il medesimo concetto: “Basterà solo che si ritiri e sia tolto di mezzo l’Impero romano, che attualmente tiene in sé tutti i popoli, e allora verrà l’Anticristo, sorgente di iniquità, che il Signore Gesù distruggerà col soffio della sua bocca” (Gerolamo, Ad Algasia, 11).
Questi brani, che ad eccezione di quelli di Lattanzio e di Giovanni Damasceno figurano (in diversa traduzione) anche nella sezione antologica del libro di Cacciari, mostrano come i Padri della Chiesa fossero decisamente orientati a riconoscere nella forza imperiale di Roma il “potere che frena” la parusia anticristica.
Tuttavia Cacciari ritiene che la forma politica dell’Impero non possa identificarsi sic et simpliciter con quella del katéchon. Egli argomenta che, se il katéchon assumesse una forma politica, questa non sarebbe imperiale, poiché il suo carattere di forza frenante contrasta, a suo parere, con l’essenziale tendenza dell’Impero ad estendere il proprio dominio su tutto il mondo. Per Cacciari infatti “l’impero non può che esigere auctoritas, da augeo: la sua civitas è augescens, o non è. Essa contiene in sé lo stesso katechon, ma come un ‘ministero’ al servizio della sua più autentica missione: l’universalizzazione del proprio dominio, fare del mondo il proprio ‘sistema’ ” (p. 30).
E’ evidente che tale argomentazione ha un valore puramente teorico, ma è smentita dall’esperienza storica. Infatti ogni Impero, compreso quello romano, per quanto in linea di principio abbia rivendicato l’egemonia mondiale (“Tu regere imperio populos, Romane, memento“; “Urbem fecisti quod prius orbis erat” e così via), nella realtà effettuale della storia ha esercitato la propria sovranità su un’area geopolitica determinata, riconoscendo più o meno formalmente la legittimità di altri Imperi, coesistendo con essi e talvolta stipulando patti di alleanza.
Ed è la stessa esperienza storica, osiamo dire, a confermare l’esegesi dei Padri della Chiesa. Infatti è stato proprio il venir meno della forza frenante esercitata dagl’Imperi (che in Europa a vario titolo ed in varia misura hanno raccolto l’eredità di Roma) a favorire la manifestazione di quell’anomia che è il nómos invertito dell’Anticristo; il corpo del quale – dice lo stesso Cacciari – è la “società” degli “ultimi uomini”.
L’ultimo uomo, quello che “non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’uomo” (Nietzsche), è caratterizzato da Cacciari come colui che “vive, in ogni senso, soltanto nella sua rete. Irretito nel potere dell’Antikeimenos, incapace di innalzarsi. La sua epoca – che egli pretende compimento non solo della storia, ma dello stesso genere ‘uomo’ – è quella della rete, proprio nella sua metafisica differenza rispetto al segno della croce, nella sua radicale anticristicità. Le direzioni della prima si dispongono integralmente sull’orizzontale, e il suo ‘progetto’ consiste nell’annullare nell’hic et nunc dello spazio globale il senso stesso del tempo escatologico-messianico; quelle della croce, all’opposto, segnano l’irrompere imprevedibile dell’Eterno sul piano della distensio temporis” (pp. 84-85).
Ma nel momento in cui Prometeo crede di poter celebrare il proprio trionfo, si apre invece una nuova era, l’evo di Epimeteo, nel quale l’antica sovranità statale sarà costretta ad assumere le dimensioni del “grande spazio”, anche se Cacciari non crede che ciò comporti l’emergere di “nuove potenze catecontiche” (p. 126).